Ci sono giornate, in Sardegna, in cui anche il vento pare trattenere il fiato per non disturbare gli equilibri della politica. E questa è una di quelle giornate, in cui da Cagliari arriva una voce – sommessa, tecnica, burocratica – che però spalanca un portone: la campagna elettorale per i Comuni eletti nel 2020 è ufficialmente iniziata. O, per essere più precisi, siamo a un anno esatto dal voto.
La presidente Alessandra Todde, che pure sembrava orientata a mantenere la scadenza naturale dei mandati – ottobre 2025, come la logica istituzionale avrebbe forse consigliato – si è vista risucchiata in quel terreno paludoso dove la politica sconfina nella giurisprudenza. Le energie – e non poche – dedicate al tema del decadimento hanno finito per relegare in secondo piano la necessità di una decisione formale, lasciando così agli uffici regionali degli Enti Locali il compito di sciogliere l’enigma.
E la risposta, asciutta come un verbale di seduta, è stata che “in assenza di disposizioni particolari, si applica la norma generale”: e cioè, se il mandato cade nel secondo semestre dell’anno, si vota alla prima tornata utile. Dunque, con una proroga di circa sei mesi, il conto alla rovescia può considerarsi ufficialmente iniziato (salvo sorprese della Presidente).
E qui, lettori, le lancette si fermano un attimo. Perché abbiamo già visto questo film. Lo scorso autunno, qualcuno aveva cominciato a muoversi, a organizzare incontri, a offrir caffè con un entusiasmo che tradiva più l’ansia da candidatura che la voglia di socialità. Qualcuno, addirittura, si è riscoperto amante del porta a porta, bussando alle case “per sapere come state”, come se i cinque anni precedenti fossero stati un lungo viaggio in Patagonia. Poi una breve pausa invernale, e oggi – con la certezza del calendario – il meccanismo si è rimesso in moto.
Lo si percepisce dai piccoli segnali. Volti mai notati a bordo campo nelle domeniche sportive, presenze nuove e improvvisamente assidue alle celebrazioni religiose e/o pubbliche, e una generale euforia da “presenzialismo” che porta certuni a mettere il cappello su qualsiasi iniziativa – dal convegno alla fioritura primaverile. Si rivedono simboli istituzionali dove prima non c’erano, e talvolta anche in contesti che, per loro natura, richiederebbero maggiore sobrietà. Perché se è vero che la dimensione spirituale è un pilastro delle nostre comunità, è altrettanto vero che essa merita rispetto e discrezione, ben lontani da ogni tentazione di confonderla con la propaganda.
Insomma, ci attende un anno particolare. In alcuni centri si respira già aria di conferma, in altri – e non sono pochi – si avverte un desiderio crescente di cambiamento. Si torna a parlarsi con altri toni, si rivedono vecchie alleanze (e in certi casi le alleanze si sgretolano e diventano più grandi nemici), si stringono mani con rinnovata cordialità. È la democrazia, si dirà. Ed è vero.
E cinque o sei mesi in più cambieranno poco: chi sta scendendo, scenderà ancora, e chi ha lavorato bene continuerà a salire. I politici veri lo sanno: quando dopo quattro anni la fiducia si è incrinata, sei mesi di proroga servono solo a farla crollare del tutto. E di centri dove la fiducia è in caduta libera ce ne sono, eccome. A un anno dal voto – e chi fa politica lo sa – non bastano dodici mesi per ribaltare l’idea che la gente si è già fatta.
Ma proprio perché si avvicina un passaggio importante, l’auspicio è che si possa assistere a una stagione elettorale di confronto autentico, non fatta di slogan frettolosi o di apparizioni costruite a tavolino. Che ci sia spazio per idee, visioni, e magari anche per un pizzico di umiltà.
Ci attende un anno in cui molti parleranno di futuro, pochi di presente, e quasi nessuno di responsabilità. Eppure sarà proprio da quella, silenziosa e poco appariscente, che si capirà chi merita davvero fiducia. Perché in fondo, alle elezioni come nella vita, non conta chi arriva prima a farsi vedere, ma chi resta quando si spengono i riflettori.
Fabrizio Carta – editoriale