CULTURA. A Tempio “il Palazzo Sanguineti”, un vero gioiello di granito da riscoprire

DiRedazione

11/06/2021

di Maurizio Mannoni,
scheda di Luigi Agus,
pubblicazione a cura di Roberto Gatto (vice presidente GDV)

Vi sono uomini, in questa nostra breve vita, che si rendono immortali per le loro opere; uomini che riescono a ritagliarsi una fetta nella fragile memoria del mondo grazie alle proprie creazioni artistiche. Ma il tentativo di fermare il tempo non deriva sempre e solo dagli artisti. Il desiderio di edificare la memoria di sé è un impulso tutto umano che si perde nella notte dei tempi. A Tempio, ai primi del Novecento, Giovanni Battista Sanguineti decise di far costruire un palazzo unico nel suo genere, forse chissà… nell’illusoria speranza di fermare “l’inarrestabile ruota”. In certo qual modo la sua aspirazione fu appagata, se è vero che quella sua scelta ha fatto parlare di sé per decenni, l’intera popolazione di Gallura.
Tempio agli inizi del ‘900 è un centro degno di prestigio ma povero, come povera è la Gallura e l’intera Isola. La lunga crisi agraria della fine del secolo appena trascorso, l’infestazione della filossera che aveva devastato migliaia di ettari di vigne negli anni Novanta unitamente al fallimento delle banche sarde nel periodo 1891-18951, facevano da sfondo ad un progetto che sapeva di straordinario. Non che i tempiesi nutrissero qualche dubbio sulle ingenti disponibilità finanziarie di quel robusto signore ligure trapiantato in Gallura sin da giovinetto, anzi, bene ne conoscevano la figura di facoltoso commerciante, ma un’idea così geniale in pochi, molto probabilmente, se l’attendevano.

I Sanguineti in Gallura
I fratelli Giovanni Battista e Gerolamo Sanguineti erano giunti in Sardegna nella seconda metà dell’800. I due commercianti liguri avevano scelto di impiantare le sedi principali dei propri interessi in Gallura, in particolare nelle località di Terranova e di Tempio, in virtù della disposizione naturale di queste terre, ricche da sempre di una risorsa che iniziava a sedurre l’intera Europa: il sughero. Da quando nel 1856 l’industriale calangianese Marco Corda ne inaugurò l’esportazione in Francia, “l’oro morbido” specie nel paese d’oltralpe, era divenuto conosciutissimo e la domanda di mercato stava acquisendo sempre più spessore: non fu certamente un caso il successo che il sughero gallurese riscosse all’esposizione di Parigi del 18991. I fratelli Sanguineti avevano fiutato che la soffice corazza vegetale, se sfruttata a dovere, avrebbe fatto la loro fortuna. La strategia comune non fu quella di improvvisarsi d’un lampo artigiani sugherieri: essi compresero che la strada migliore, almeno per gli inizi, era quella di comprare i semilavorati e i prodotti finiti per destinarli al mercato estero, con un occhio particolare alla Francia; tutto questo, unito alla esportazione dei prodotti agricoli e del prezioso tannino (che si estraeva dalla corteccia dei lecci e serviva per la concia delle pelli).
La robustezza economica dei Sanguineti doveva essere davvero consistente: i piani di esportazione, nello scorcio di fine secolo, non trovavano di sicuro le condizioni favorevoli nella politica del Regno. Di quanto fosse agitato il “mare” della vendita delle merci all’estero, ne sapevano qualcosa un po’ tutti gli imprenditori del mezzogiorno: da quando il governo, con la tariffa doganale del 1887, aveva consolidato la politica protezionistica, esportare, specialmente in Francia, significava fronteggiare autentiche tempeste di dazi e tributi. Ma d’altronde non v’è da meravigliarsi, se si pensa che la ditta Sanguineti e Figli risaliva al 1526 e che molti dei Velieri che curavano gli interessi dei genovesi facendo la spola tra Olbia, Golfo Aranci, Santa Teresa e Marsiglia, erano di proprietà dell’antica casata.
I fratelli Sanguineti ebbero l’acume di notare che il mercato gallurese non pullulava di certo di eccessiva offerta. Fu così che decisero di avviare un’imponente attività commerciale al dettaglio, importando dai paesi mediterranei grossi quantitativi di merce al fine di sistemarli presso i consumatori della Gallura. L’abilità dei due commercianti fu indubbiamente quella di puntare su di una merceologia vastissima che trovava un facile sbocco presso tutti i cittadini, dai nobili ai contadini: dai libri contabili rinvenuti nel palazzo si riscontrano registrazioni di vendita delle merci più varie, dal sapone alle candele steariche, dal caffè al petrolio. L’imponente commercio al minuto si svolse per anni, a partire dalla sua costruzione, proprio al piano terra del palazzo Sanguineti: facile immaginare come quel sontuoso ed elegante palazzo signorile costituisse, in quegli anni, il negozio più importante e grande della città.


La storia del Palazzo Sanguineti
Quando i Sanguineti si stanziarono a Tempio rilevarono, nell’area dove sarebbe sorto il palazzo, un vecchio edificio in granito di poche stanze da una coppia di anziani signori; fu nel modesto locale che i due commercianti liguri avviarono la prima attività al minuto non disdegnando, come riporta la memoria dei più anziani, di vendere addirittura di persona, dal retro del bancone, le loro merci. Nei primi anni del secolo Giovanni Battista, chiamato familiarmente Baciccia, dovette fare i conti con la scomparsa del fratello Gerolamo avvenuta a causa di una lunga malattia. Rimasto solo, Baciccia, non mancò certo di audacia e di senso degli affari: fu da questo momento, ch’egli si risolse per l’ingrandimento dell’attività attraverso la costruzione di un palazzo monumentale. L’idea di Sanguinei dovette in realtà consistere più che in un tentativo di espansione economica, in un’esigenza di capriccio personale; amante del gusto classico nonché uomo di cultura (nel palazzo lasciò vari libri tra cui un’edizione antichissima della Divina Commedia) qual era, il robusto commerciante li gure, volle probabilmente realizzare un’opera unica in una Tempio la cui eleganza nelle costruzioni aveva fatto nomea sin dal ‘700. Ma se il bel granito offriva gran mostra di sé nei curati palazzi signorili della nobiltà tempiese, mai Tempio avrebbe visto una costruzione più armoniosa di quella che vagheggiava nella mente l’ambizioso signore genovese in quelle stagioni di inizio secolo.
Prima di intraprendere il passo decisivo Sanguineti riuscì ad assicurarsi, dalla famiglia Valentino, il palazzetto che sorgeva proprio adiacente al proprio edificio. L’acquisto fu a lungo caldeggiato per un particolare curioso. Come si sa, nella cultura dell’epoca, chi vendeva un immobile, non consolidava certo il proprio prestigio sociale. Le malelingue potevano interpretare quella scelta come il sintomo di una solidità economica rimasta ormai soltanto in un luccicante passato. La nobile famiglia tempiese rimase in effetti esitante per diversi mesi a causa di questa paura sociale. Ma alla fine, grazie ad un abile accorgimento, dovuto di sicuro anche alle allettanti offerte di Sanguineti, si risolse per la cessione: il curioso stratagemma consistette nel giustificare la vendita del palazzo con un costante brusio di spiriti ultraterreni che stavano terrorizzando la famiglia…
Ma veniamo ancora all’idea monumentale di Sanguineti. Il granito, egli notò, ben si prestava a gradevoli forme architettoniche e ad artistiche decorazioni in voga nell’epoca, alla stregua di degni palazzi nobiliari dei grossi centri.
Fu così che egli si rivolse allo scultore Villa, il cui centro di lavoro era a Terranova e che impartiva i suoi insegnamenti a giovani apprendisti scalpellini di tutta la Gallura. Fra i suoi allievi, i quali parteciparono alla costruzione del palazzo, figurava anche il giovanissimo Giovanni Maria Balata3 (dell’antica famiglia dei Balata, abili scalpellini), un nome di spicco nell’arte della lavorazione del granito (a lui si dovranno, tra le altre opere, le magnifiche balaustre del Caseggiato Scolastico).
Il palazzo, iniziato nel 1902 fu concluso con e norme fatica, solo nel 1906. A lavori ultimati. Sangui­ neri volle aggiungere anche agli interni un importante tocco di impreziosimento artistico. Diversi anni prima, nel 1899, era giunto a Calangianus il pittore milanese Antonio Dovera, chiamato dal famoso Fra Bonaventura, per eseguire degli affreschi nella volta della Chiesa di Santa Giusta4. Alla meraviglia di quelle decorazioni, per la cui inaugurazione accorsero numerosissimi forestieri, egli non seppe resistere. Quel bravo pittore, cresciuto nell’Accademia di Brera, andava impegnato nel Palazzo tempiese per dipingere le austere volte. Fu così che Sanguineti lo ricontattò immediatamente. Per Dovera non si trattò della prima esperienza d’artista in un palazzo privato: egli era già venuto a contatto con marchesi e cavalieri di Sassari per affreschi e pitture nelle loro eleganti abitazioni5. Ne fiorì una splendida esecuzione a simboleggiare la forza dei Sanguineti. Oltre allo stemma della ditta, egli dipinse un’avvenente Dea fortuna.
Con la morte di Sanguineti, avvenuta nel novembre del 19186, l’ingente patrimonio di famiglia passò all’unica erede, la nipote, Rosa Bozzo, emigrata negli Stati Uniti. La donna, in nozze con un miliardario americano, non si curò di preservare le numerose proprietà dello zio. Inviò a Tempio il suo procuratore, un certo Brichetto, con l’ordine di porre l’intera eredità in vendita. Il Palazzo fu acquistato per 200.000 lire (pari a circa 217.000 euro attuali) da un noto commerciante tempiese di sughero, Mario Cossu (il padre del professor Giulio Cossu) il quale era riuscito a racimolare la quota grazie ad importanti affari conclusi con imprenditori della vicina Corsica. La famiglia Cossu si trasferirà definitivamente soltanto nel 1934 a causa delle precarie condizioni di salute di uno dei figli. All’epoca del trasferimento il prof. Giulio, che da allora ha sempre vissuto nel Palazzo, aveva quattordici anni. All’attenzione dell’illustre studioso si devono molti dei rifacimenti interni che hanno il pregio di rendere il Palazzo Sanguineti, un’autentica opera d’arte. A lui un ringraziamento particolare per le notizie offerte.

LA SCHEDA
di Luigi Agus

Il prospetto di Palazzo Sanguineti si presenta suddiviso in tre livelli sovrapposti, più un attico, chiuso sui lati da paraste in granito scanalate con piedestalli alla base. Il piano terreno è caratterizzato da un bugnato in granito liscio con tre aperture. Il portale centrale, a fornice, è contornato da due doppie paraste, che sul centro divengono polistili a strombo. Il basamento è liscio e regge una serie di nervature, concave e convesse, che proseguono lungo la ghiera, interrotti da una doppia cornice con trabeazione traforata allargata alle paraste limitari. L’arco chiude in alto a serraglia con voluta singola. Sulle pareti laterali, bugnate, le altre aperture presentano simili caratteristiche, anche se di forma rettangolare, meno imponenti e prive delle paraste. Il primo piano, il più alto dell’edificio, si presenta sempre con la medesima teoria delle tre aperture, delle quali, quella centrale balconata, mentre quelle laterali risultano finestre inginocchiate.
Il balcone centrale, assai imponente, si collega con una soluzione di continuità al portale inferiore ed è retto da tre beccatelli a voluta sostenenti una cornice in forte aggetto. La balaustra è costituita da cinque pilastrini traforati a scaglie, di cui due incassati nel fronte, mentre gli intercolumni sono riempiti da due emi-balaustri asimmetrici con fuso a candelabro, ciascuno, collegati da inferriate. L’apertura centrale si presenta contornata da una cornice piatta più due paraste esterne decorate a scaglie che terminano in alto con altrettanti beccatelli a voluta, sempre a scaglie, che reggono una cornice semplice, priva di trabeazione, per chiudere infine con un timpano emiellitico in forte aggetto interrotto al centro dallo stemma araldico familiare. Le aperture laterali, come già accennato, presentano caratteristiche comuni a quella centra­ le, con la differenza che il timpano classico è retto da due peducchi laterali a voluta.
L’ultimo piano presenta tre aperture identiche poggianti su una cornice lineare che percorre l’intero fronte e che in corrispondenza delle finestre risulta in aggetto. Sovrastano le tre aperture altrettante cornici.
L’edificio è chiuso in alto da un ampio cornicione eclettico, con trabeazione a cui si sovrappone un attico a balaustra murata sopraelevata centralmente.
Il portone principale, in legno con applicazioni in ottone, presenta due ante scompartite in tre livelli sovrapposti, più la base. I decori utilizzati come le ancore e le stelle senz’altro richiamano Genova, patria di provenienza del ricco commerciante proprietario dell’edificio, mentre lo stelo avvolto da serpenti simmetrici sormontati da elmetto alato, rappresentano l’alchimia e la scienza più in generale.
Nell’insieme l’edificio risulta abbastanza omogeneo, anche se si devono rilevare taluni accenti eclettici come il portale d’influsso neoromanico.
Per il resto, pur richiamando fogge neorinascimentali (il bugnato, le finestre inginocchiate e il cornicione) il progettista risulta aggiornato ampiamente sulle esperienze coeve d’ascendenza liberty come quelle del Sommaruga o del Basile.

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NOTE
1 ‘‘Tempio e il suo volto”, di M. Brigaglia e F. Fresi, Delfino Editore.
2 “Tempio nella seconda metà dell’ottocento” di M. Bruschi Brandano, Editrice Libreria Dessi.
3 “Breve storia del granito sardo” di Salvatore Fiore e Gio­ vanni Gelsomino.
1 “La Nuova Sardegna ” 5 Ottobre 1900.
5 “Pittura e Scultura nell’800” di Maria Grazia Scano.
6 “Cronache della vecchia Gallura ” di Enrico Baravelli.

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